L’Omeopatia non è un approccio utile al capitale ma un approccio utile alla salute
Ieri, mentre stavo vogando sul fiume nella pausa pranzo, ripensavo a ciò che avevo letto pochi giorni fa su un quotidiano italiano di grande diffusione. Due pagine centrali interamente dedicate alla professione medica, al suo cambiamento, e alla disillusione e al senso di fallimento di tanti camici bianchi che se potessero tornare indietro (uno su quattro negli USA) farebbero un altro mestiere. Descriveva il passato glorioso di un’attività che aveva un tempo, nell’immaginario collettivo, il massimo riconoscimento sociale e una solida sicurezza economica diventata poi, in tempi moderni, un bersaglio per cause legali , con una conseguente, lenta ma inesorabile, perdita degli ideali professionali. L’articolo si intitolava laconicamente “Il medico malato”. Analizzava la burocratizzazione della pratica clinica, il burn out, le grandi responsabilità e il continuo confronto con il dolore e la morte per stipendi spesso da precari.
Citava il libro “Doctored: the disillusionment of an American physician” del cardiologo di New York Sandeep Jauhar che descrive ciò che può succedere nella vita professionale: le cause per danni, gli stipendi non più alti, l’impazienza, talvolta l’indifferenza e spesso la perdita degli ideali professionali.
Lungo la riva del fiume, ad un certo punto vidi una bambina che giocava e le sue braccia mi ricordarono quelle della ragazzina che avevo visitato il giorno prima che soffriva di una psoriasi diffusa a tutto il corpo che la perseguitava fin dai primi anni di vita. Era venuta in visita circa tre mesi prima con la madre che mi raccontò come questa psoriasi fosse stata trattata da illustri dermatologi con pochi risultati se non transitori e passeggeri. Dopo la valutazione del problema dermatologico alle mie domande sulle condizioni generali la madre mi raccontò che sua figlia era un bambina adottata e che fin dai primi tempi non si era mai voluta integrare alle nuove condizioni di vita. Così a scuola non partecipava ad alcuna attività se non obbligata, non parlava e non socializzava con nessuno. Seppure molto amata e coccolata aveva un rapporto molto freddo con il mondo, genitori, coetanei, insegnanti. Aveva grandi problemi nel leggere e scrivere tanto da aver bisogno di una insegnante di supporto.
Quando superai il primo ponte e, improvvisamente, nascosto dalle chiome degli alberi spuntò il sole e sentii il suo calore sul volto sorrisi, ero soddisfatto della mia vita ed riconoscente alla mia professione per tutte le soddisfazioni che mi da ogni giorno.
Ripensavo alle parole che la madre mi disse il giorno prima, quando tornarono nel mio studio per la seconda visita. Raccontò in modo molto accorato che sua figlia aveva avuto dei cambiamenti impensabili fino a poco tempo fa. Mi descrisse il mutamento graduale ma rapido del comportamento di sua figlia a scuola e a casa. Aveva cominciato a partecipare alla vita scolastica, parlava con i suoi compagni, si era cominciata ad appassionare alla lettura e alla scrittura, aveva cominciato a ridere e, dulcis in fundo, si era cimentata, di sua sponte, nello scrivere poesie, cosa impensabile fino a poco tempo fa. Nel rapporto in famiglia aveva finalmente scoperto la tenerezza delle coccole che finalmente accettava e ricambiava. Completamente coinvolto nel così trascinante racconto della madre mi dimenticai di chiedere notizie della psoriasi. Fu la madre che in coda al discorso mi disse: “Ah dottore mi dimenticavo di dirle della psoriasi. Nel giro della prima settimana è completamente scomparsa. Mia figlia non la ricordo con una pelle così pulita”.
Il principio di similitudine ben applicato ha permesso ad un rimedio come natrum muriaticum di agire così profondamente in un organismo e riportarlo ad uno stato di grande equilibrio sistemico.
Certo, per me il rapporto con il paziente è fondamentale. Non perché io faccia terapia psicologica (anche se poi esiste una certa valenza anche in questo senso nel rapporto medico-paziente) ma perché da “investigatore” devo cercare di scoprire chi è veramente la persona che ho di fronte. Devo cercare di capire come vive, come soffre, come ragiona, come sente le emozioni, di cosa ha paura veramente, quali sono i suo profondi desideri, le sue aspettative, le sue delusioni, le sue eventuali vessazione subite, quali possono essere le vere cause dei suoi disturbi al di là dei parametri biologici o della diagnostica per immagini che sono utili per esprimere una diagnosi nosologica ma non sindromica come spesso succede di trattare.
Sostiene uno studio americano che dopo appena 17 secondi il medico convenzionale interrompe la narrazione del paziente per porgli una domanda. Così, dice lo studio, spesso non si riesce a capire davvero cosa abbia il paziente.
Per noi omeopati non esiste il problema dei 17 secondi. Le nostre prime visite durano 1 ora e mezza circa. Nei tre anni di corso di formazione omeopatica si insegna ai medici che il paziente va lasciato parlare fino a che abbia esaurito il suo discorso e, solo a quel punto, si possono fare domande di approfondimento. Le domande debbono essere sempre aperte cioè non devono mai indurre il paziente a rispondere si o no.
“Ma il medico deve curare il malato” ripete il dott. Marco Venturino, primario di anestesia e rianimazione a Milano in un articolo a lato di quello che citavo prima. In questi suoi ragionamenti Venturino analizza come un tempo la medicina fosse solo esperienza, arte a metà tra la pratica religiosa e la magia con un conseguente ruolo ieratico del medico mentre oggi grazie all’ aumento del livello culturale e la possibilità di documentarsi da parte del paziente sia decaduto il ruolo di grande stregone del medico e hanno introdotto il concetto di autonomia decisionale del paziente. Termina il suo scritto con una riflessione cruciale: dice che il problema della medicina è quello di non essere scienza, né pratica giuridica, né ambizione professionale, né traguardo economico ma è esclusivamente un servizio per l’altro. “e questo non deve nè può cambiare”.
Mentre immergevo le voghe il acqua e mi spingevo lungo il fiume pensavo alla grande affinità di approccio alla professione che ho con Venturino verso il quale ho grande riconoscenza per aver scritto anni fa un libro di grande spessore che tutti i medici dovrebbero leggere: “Cosa sognano i pesci rossi”. Una analisi appassionata dei limiti ma anche della grande potenzialità umana della medicina attraverso una serie di storie personali su medici, pazienti e malattie. Le sue parole mi arricchirono molto e mi sentii orgoglioso di partecipare a quel modo di far medicina.
Minor orgoglio di categoria mi ispirano invece le “meno acute” parole del dott. Salvo Di Grazia ginecologo che dal suo blog Med Bunker esprime perplessità quando sente “di medici che praticano l’omeopatia o altre medicine alternative”. E ancora dice” non posso credere che una persona che ha studiato per anni il funzionamento del corpo umano, la farmacologia, la fisiologia, l’anatomia, ha conosciuto la fisica e la chimica, ha imparato a comprendere termini come “recettore ” o “enzima “, da un giorno all’altro si lanci in ragionamenti fantascientifici quando non antiscientifici , parli di “memoria dell’acqua ” e “simile cura il simile “, di energie e vibrazioni, somigliando più ad un mago di altre epoche piuttosto oscure che ad un moderno ed aggiornato professionista” .
Probabilmente, nel suo intimo, il collega considera ciarlatani anche la gran parte del fisici del XX secolo e contemporanei che il suo concetto di recettore ed enzima, chiave-serratura, seppur siano la base della farmacologia moderna, ormai lo considerano una visione limitata e parziale della realtà, come di una parte della scienza destinato a diventare presto un pezzo di storia mentre discutono di quantistica e altre amenità non misurabili con la bilancia delle patate.
Del resto la medicina difesa strenuamente da Di Grazia, asserragliato nel suo Bunker mediatico è quella, in fondo, ancora ferma epistemologicamente al tempo di Giovanni Battista Morgagni, il padre della moderna patologia e, dunque, della medicina moderna. Il suo “De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis” (1761), uno dei libri più importanti della storia della medicina, mette in relazione le alterazioni anatomiche osservate autopticamente con le malattie che erano state rilevate clinicamente, dimostrando come ad ogni alterazione anatomica corrisponda un’alterazione della funzione e quindi una malattia, segnando l’inizio della patologia d’organo.
In questi 300 anni la scienza è andata avanti con interpretazioni sempre più complesse della materia e del vivente ma la medicina, a parte usufruire della tecnologia per la diagnosi, è rimasta ancora legata a concetti così superati dal punto di vista clinico. Il paradigma della complessità non ha modo di sfondare nelle menti così manichee dei medici moderni. Batteri buoni da una parte e batteri cattivi dall’altra. Antibiotici per sconfiggere il nemico. Atteggiamenti da generale Patton, concetti di aggressione, distruzione, mai di regolazione o armonia e soprattutto di stimolo alle naturali, potentissime capacità di difesa dell’organismo umano. Di fronte alle malattie croniche e soprattutto a quelle autoimmuni tutti i cannoni e l’aggressività della medicina moderna è in difficoltà metodologica. Non c’è più un nemico da sconfiggere. Non c’è più un batterio o un virus da aggredire. Nonostante i miliardi di euro spesi in tutti questi anni di ricerca non si è riusciti a dare una interpretazione accettabile della causa per cui un organismo ad un certo punto decide di autodistruggersi. Il modello interpretativo che è sempre stato usato ora non è più sufficiente. Bisognerebbe trovarne uno più adatto ad interpretare la realtà di queste patologie. E gli insuccessi si moltiplicano, i pazienti capiscono l’arrancare del pensiero, l’applicare un protocollo senza un obiettivo chiaro, vivono sulla loro pelle gli effetti collaterali di farmaci che sopprimono sintomi ma che non guariscono.
Scetticamente il collega Di Grazia si chiede che cosa possa spingere un medico a percorrere quelle strade “diverse” e ipotizza crisi d’identità, incompetenza o più semplicemente sete di denaro. Lo rassicuro sul fatto che forse nessuna di queste ipotesi sia corretta.
Né per i soldi: una visita omeopatica dura almeno un’ora (nello stesso lasso di tempo lui può fare 3 o 4 visite ginecologiche che gli renderanno 3 o 4 volte tanto).
Né per incompetenza : l’omeopatia è molto complessa e difficile, la studi dopo esserti formato come medico tradizionale. E’ un grosso sforzo concettuale e di approccio metodologico capire per esempio che i sintomi non rappresentano la malattia stessa ma un importante tentativo di guarigione da parte dell’organismo e pertanto sono da valutare e aiutare e non da sopprimere senza sosta. E’ un grosso sforzo mnemonico ricordare quasi 3000 rimedi rispetto al centinaio (sono magnanimo) di principi attivi della farmacologia convenzionale. Richiede grande capacità psicologica e grandi doti empatiche riuscire a capire in poco tempo chi è la persona che hai dinnanzi.
Sulla crisi di identità ho qualche dubbio. Se per questo il collega intende il fatto di non identificarsi più nel medico che dopo 17 secondi interrompe il paziente, che se potesse avere solo la cartella clinica per poterne valutare i valori ematochimici, le indagini diagnostiche ed esprimere una diagnosi senza la “scocciatura” di dover parlare con il paziente, o ancora nell’ impiegare la medicina cosiddetta difensiva per tutelarsi meglio da eventuali cause legali prescrivendo ai pazienti tutti i farmaci previsti dai protocolli pur sapendo che talvolta sono controproducenti e che ormai negli USA rappresentano uno dei primi motivi di morte tra la popolazione allora può essere considerata una crisi di identità.
Se per questo intende la prescrizione di farmaci cortisonici a grandi e piccini per qualsiasi quadro infiammatorio sapendo perfettamente che, se un senso ha nell’acuto, nel cronico è molto dannoso per il paziente e non lo porterà mai a vera guarigione, allora è crisi di identità.
Probabilmente ciò che spinge un medico a cercare altre strade è semplicemente curiosità scientifica.
Del resto molti dei medici omeopatici che conosco sono diventati tali perché insoddisfatti da ciò la medicina convenzionale proponeva come soluzione ai problemi di salute. Certamente medici omeopatici differenti da quelli che frequenta Di Grazia che riferisce come “ quando parlo con amici che praticano una delle tante medicine alternative (permesse dalla legge) noto sempre argomentazioni vaghe, quasi un desiderio di sfuggire al confronto, forse un senso di colpa. Una volta chiesi ad un collega omeopata, che ammetteva l’inconsistenza delle teorie omeopatiche, se non pensasse alla scelta poco etica del mentire al paziente sull’assurdità delle proprietà dei granuli di zucchero omeopatici, la sua risposta fu probabilmente la più sincera potesse darmi: “se rivelassimo ciò che somministriamo non avremmo nessun risultato “.
E’ strano che i miei colleghi invece non usino argomentazioni vaghe, non sfuggano al confronto, e neppure abbiano sensi di colpa e soprattutto considerino un incompetente chi ha dato una risposta del genere.
Nelle mie lezioni all’università ho particolare soddisfazione quando riesco ad incuriosire le menti obnubilate dalla certezza tipica degli studenti che, irreggimentati come i cadetti di West Point che escono dall’Accademia, sono convinti che la mappa sia uguale al territorio. L’esperienza dimostrerà loro talvolta il contrario. E’ più facile trovare interesse a nuovi modelli metodologici tra medici di esperienza, quelli che hanno capito che la medicina non è una scienza esatta.
Si continua a sostenere che mancano le evidenze scientifiche a sostegno dell’omeopatia e si offendono seri professionisti con i soliti temi da imbonitori di folle: gli omeopati sono venditori di zucchero e ciarlatani da fiera.
Ma la verità è che la comunità scientifica è sorda a qualsiasi messaggio di cambiamento.
Per anni si è criticata la Chiesa Cattolica per la rigidità concettuale e l’atteggiamento da santa inquisizione verso il “nuovo” indicando invece la metodologia scientifica come razionale approccio all’evoluzione del pensiero. Ora la realtà si sta ribaltando. Con Papa Francesco la Chiesa sta affrontando nuovi orizzonti in modo molto più aperto e supera il mondo scientifico che invece paga la sua sudditanza all’interesse economico delle case farmaceutiche mantenendo la sua chiusura a nuovi paradigmi.
Pensate, per esempio, che poco tempo fa il team di Meiersteinlin dell’Università di Berna ha realizzato un lavoro molto interessante sull ’impiego dell’omeopatia nei bambini affetti da ADHS (la sindrome da deficit di attenzione). Ha selezionato un gruppo di 80 bambini con lo stesso grado di malattia e li ha sottoposti ad un trattamento omeopatico attraverso il lavoro del pediatra Heine Frey con una terapia individualizzata. Il confronto tra il trattamento omeopatico versus placebo in doppio cieco (ovviamente) è stato invertito nei due gruppi di controllo per escludere che l’effetto potesse essere legato al rapporto medico paziente e che l’efficacia della terapia fosse più legata all’influenza del medico che del rimedio. I risultati hanno dimostrato che indubitabilmente nelle fasi in cui i bambini assumevano i rimedi omeopatici i loro sintomi miglioravano nettamente rispetto al placebo. I ricercatori di fronte a questi risultati hanno provato a pubblicarli sulla rivista Lancet considerandoli importanti per la comunità scientifica. I responsabili della rivista hanno risposto che il lavoro era molto buono ma che non era adatto alla loro rivista. Hanno scritto che i loro lettori cercavano altro.
Molti lavori scientifici in campo veterinario, botanico e in campo biofisico stanno dimostrando le evidenti differenze tra l’acqua omeopatica e l’acqua non trattata. I lavori del Prof Bellavite (Università di Verona) della Prof Betti (Università di Bologna) e del Prof Elia (Università di Napoli) ne sono la testimonianza.
Una voce che disturba si può far tacere in molti modi: negandole accessi mediatici o soffocandola finanziariamente.
La gente comune però è più sensibili ai risultati che ai lavori scientifici pubblicati. Persino gli allevatori di bestiame stanno chiedendo sempre più l’intervento di veterinari omeopatici per risolvere i problemi di malattie degli allevamenti.
Le 18.000 galline di un allevatore tedesco che si lamentava dei gusci fragili e sottili delle loro uova, dopo pochi giorni di trattamento omeopatico hanno cominciato a sfornare uova con un guscio più spesso e più resistente. Sarà suggestione collettiva?
I semi di grano degli esperimenti della Prof Betti dell’Università di Bologna che, irrorati con il rimedio omeopatico arsenicum album diluito e dinamizzato oltre il numero di Avogadro, hanno un tempo di germinazione dimezzato rispetto a quello del campione irrorato con acqua normale sono anche loro affetti probabilmente da allucinazione collettiva.
La carne degli animali trattati omeopaticamente non contiene residui di farmaci al loro interno. Pensate che negli USA il 90% della produzione delle industrie degli antibiotici sono assorbiti dall’allevamento di animali da macello. Pensate che la farmaco-resistenza, che tanto preoccupa la moderna farmacologia, è verosimilmente indotta dagli antibiotici che mangiamo con la carne degli animali di allevamento.
A questo punto della mia vita professionale i risultati di guarigione o anche solo di netto miglioramento delle condizioni cliniche dei miei pazienti affetti da patologie croniche mi fanno considerare pura follia o chiaro pregiudizio colluso con interessi economici il non indagare in modo approfondito altri modelli interpretativi della patologia dedicandovi maggiori risorse. La medicina del futuro dovrà pensionare prima o poi il pensiero del caro Gianbattista Morgagni.
Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina nel 2008 in una recente intervista ha detto che viviamo in un clima di conformismo intellettuale e che dovremmo mantenere la nostra mente aperta e ricettiva alle nuove idee .
Continua dicendo :”Prendiamo per esempio le cosiddette malattie autoimmuni tipo l’artrite reumatoide o sclerosi multipla . L’ attuale atteggiamento non è quello di cercare e trattare le cause di tali malattie , ma trattare i loro sintomi , e in particolare riducendo la risposta esagerata del sistema immunitario del paziente con un anticorpo monoclonale anticorpi o farmaci tossici . Tali trattamenti risultano indebolire le difese immunitarie nei confronti di altri malattie come tumori o infezioni . Trovare le cause principali , spesso infezioni latenti , è completamente dimenticato .”
“Al momento” continua Montagnier ” sto studiando la capacità di memoria di acqua e la trasmissione delle informazioni specifiche attraverso segnali elettromagnetici e la sua applicazione alle malattie croniche. L’organismo umano ha una straordinaria complessità e al suo interno vi è una continua interazione tra le molecole, cellule e organi. Noi non siamo fatti solo di materia, ma anche di energia e onde. Quando è sottoposta a onde elettromagnetiche di bassa frequenza, l’acqua ricrea strutture che portano informazioni pertinenti al DNA dell’entità con la quale è stata a contatto , come batteri o virus . Questa informazione permette di ricostruire questo DNA dall’acqua che , in effetti , ne conserva memoria . L’acqua fornisce informazioni che possono essere memorizzate digitalmente e trasmesse via e-mail. Una scoperta rivoluzionaria, per cui ora sono pesantemente criticato da un numero non poco significativo di ricercatori del mondo della scienza contemporanea.
L’idea che l’acqua possa avere una memoria e che il corpo umano sia in grado di comunicare attraverso segnali magnetici e onde è qualcosa che non tutti sono ancora pronti a credere.
Per lo più per ignoranza.
E questo è sempre stato una limitazione per la scienza.
Ricordate la storia di Ignaz Semmelweiss: era un medico ungherese che lavorava in un ospedale di Vienna nel 19 ° secolo e stava studiando le cause della febbre puerperale, che uccideva migliaia di donne dopo il parto. I medici che aiutavano le madri a partorire nel pomeriggio erano gli stessi medici che nel corso della mattina facevano autopsie sui cadaveri. Semmelweiss suggerì semplicemente di lavarsi le mani e di cambiare le lenzuola e il tasso di mortalità si ridusse drammaticamente
Ma il suo metodo era troppo semplice. Fu ostacolato da tutti i professori intorno a lui e morì in
un manicomio nel 1865. Considerato pazzo dalla comunità scientifica del tempo fu poi Pasteur che riabilitò la sua reputazione, dopo la sua morte. E la sua storia non è l’unico esempio.
Quando a Karl Ernst Ludwig Planck Max – premio Nobel per la Fisica nel 1918 – è stato chiesto come è riuscito ad affermare le sue nuove idee nel campo della fisica quantistica, ha risposto che gli è stato possibile solo una volta che tutti i suoi antagonisti erano morti. La stupidità umana, compresa quella di presunti scienziati, è vasta. Io” afferma Montagnier “ lo chiamo “oscurantismo scientifico”: due parole antinomiche!
Per capire l’origine delle malattie, dobbiamo evolvere i nostri concetti. Il concetto di Pasteur – che un singolo germe provoca una malattia che richiede una sola cura – non è più applicabile: al giorno d’oggi ci troviamo di fronte a malattie complesse causate da molteplici fattori, fattori ambientali, in particolare. L’attività dell’uomo sta causando un sacco di cambiamenti ambientali e una malattia può svilupparsi da un insieme di cause concomitanti, come la dieta, l’inquinamento e predisposizioni genetiche.”
Conosco già la replica a queste parole del collega Di Grazia che nell’aria ormai viziata del suo Bunker continua a non voler aprire le finestre al cambiamento: “anche i Nobel possono delirare!”
Naturalmente scherzo. Rispetto il lavoro e le idee del collega anche se opposte alle mie auspicando un dialogo di confronto su temi così importanti senza inutili discussioni di principio.
Forse le parole di Luc Montagnier “Non smetterò mai di chiedermi la causa delle malattie, cercandone una soluzione” dovrebbe essere l’unico faro per la nostra rotta.
DUBIUM SAPIENTIAE INITIUM